Una recente ricerca del MIT dimostra che il cervello "rompe" il DNA quando sottoposto a stimoli legati ad apprendimento e memorizzazione.
Sappiamo bene di non conoscere ancora molto del funzionamento del nostro cervello, del modo in cui raccoglie e processa le informazioni e di come costruisce le reti di informazione al suo interno.
Nonostante ciò, alcune ipotesi restano molto recondite, nel pensiero dei neuroscienziati: ecco quindi che una ricerca può essere definita “inaspettata" da parte della comunità scientifica. È il caso dell’ultimo studio condotto dalla Professoressa Li-Huei Tsai, che parte da una vecchia analisi dei pazienti malati di Alzheimer per definire il modo in cui il cervello reagisce normalmente agli stimoli.
Il cervello è capace di "rompere" il DNA
Nel 2015, uno studio del team guidato da Li-Huei Tsai, del Massachusetts Institute of Technology, rivelò che l’Alzheimer era direttamente collegata alla presenza di interruzioni del doppio filamento di DNA all’interno dei neuroni.
In quell’occasione, si scoprì che in determinate condizioni gli stessi neuroni procuravano degli strappi al proprio DNA. Più filamenti venivano rotti, e più aumentava la presenza di geni veloci associati all’attività sinaptica di apprendimento e memorizzazione.
La rottura del DNA sembrava dunque, già in quella ricerca, essenziale per regolare alcune funzioni del cervello.
Ma la comunità scientifica ha da sempre associato alle modifiche del DNA scenari tutt’altro che positivi: in particolare, la rottura del doppio filamento viene associata alla formazione di "incidenti" genici che conducono a gravi malattie e che sono responsabili di invecchiamento e processi di neurodegenerazione.
Quando si rompe un doppio filamento, infatti, è molto difficile per le cellule riparare il danno, in quanto viene a mancare qualunque tipo di indicazione su come "ricostruire" il filamento in maniera corretta.
Per questo, ammette Tsai, la ricerca "fu accolta con molto scetticismo" poiché "le persone hanno difficoltà a pensare che le rotture del doppio filamento possano davvero essere fisiologicamente importanti", o utili per l’organismo.
Il nuovo studio conferma il legame tra DNA e memoria
Paul Marshall, ricercatore all’Università del Queensland in Australia, fu uno dei pochi a voler seguire le orme della prima ricerca di Tsai, ed i risultati del suo studio – datato 2019 – non fanno che confermare in pieno le conclusioni della Professoressa del MIT.
Marshall e colleghi non soltanto hanno dimostrato che le osservazioni di Tsai erano corrette, ma hanno proposto un meccanismo a doppia azione per spiegare il fenomeno. Quando un filamento di DNA si rompe, vengono rilasciate molecole enzimatiche per la trascrizione, ed il punto di rottura è segnalato con uno specifico marker chimico. Nella seconda fase del processo, il marker viene eliminato ed inizia la ricostruzione del DNA, ma gli enzimi continuano ad essere liberi, dando avvia ad un "secondo round di trascrizioni".
"La rottura del DNA non è coinvolta soltanto come causa scatenante", spiega Marshall, "ma diventa poi un marker funzionale nel guidare i meccanismi di riparazione verso la giusta posizione".
Altri studi hanno confermato la "spiazzante" scoperta di Tsai. In una pubblicazione molto recente, la Dottoressa torna sulla questione, stavolta con uno studio che coinvolge le cellule di organismi vivi.
Sottoposti ad un potente stimolo all’apprendimento, i geni della corteccia frontale e dell’ippocampo dei topi mostrano diverse rotture del doppio filamento del DNA. Le rotture, per di più, avvengono nella maggior parte in prossimità dei geni coinvolti nei processi legati alla memorizzazione.
La rottura del doppio filamento del DNA, dunque, potrebbe essere un meccanismo fisiologico non soltanto normale, ma fondamentale per l’apprendimento e per il funzionamento del cervello.
Alessandra Caraffa